Il principio omeopatico di autoguarigione fu scoperto oltre 300 anni fa per caso da un medico, ricercatore e chimico: Christian Samuel Friedrich Hahnemann.
Mentre traduceva un’opera medica dall’inglese in tedesco, si soffermò sugli effetti della corteccia di china che attirarono la sua attenzione.
Fu colpito dal fatto che i lavoratori della corteccia di china (febbrifuga e ricostituente) presentavano invece dei sintomi molto simili a quelli della febbre malarica e decise allora di provare su se stesso gli effetti di questa corteccia: iniziò l’epoca della farmacologia sperimentale.
In effetti assumendo per diversi giorni pochi grammi di china si manifestarono tutti i sintomi della febbre intermittente tipica della malaria. Questa situazione si ripresentava ripetendo la somministrazione, quando smise era guarito. In seguito il dott. Hahnemann provò altre sostanze anche su altri soggetti sani e chiamò questo metodo: sperimentazione farmacologica omeopatica o patogenesìa.
Giunse alla conclusione che alcune sostanze inducevano sull’uomo sano degli effetti simili ad una malattia. Questo stato patologico fu detto malattia da farmaco ed i sintomi provocati e rilevati furono raccolti nei sei volumi Materia Medica Pura, considerati la Bibbia dell’omeopatia. Hahnemann cominciò ad utilizzare i rimedi sperimentati sui malati i cui sintomi rappresentavano l’immagine speculare dei sintomi provocati dal rimedio.
Questo principio in Omeopatia è detto della similitudine ed è ancora fortemente valido. Utilizzando questo principio ci si accorse che l’assunzione di sostanze a volte velenose induceva un aggravamento esagerato della malattia. Fu così applicato il principio di diluizione, cioè della somministrazione del rimedio in dosi infinitesimali.
La diluizione dei farmaci omeopatici si ottiene secondo un gradiente preciso, di base decimale (1/10) o centesimale (1/100). Ad ogni diluizione per potenziare l’effetto della sostanza si effettua una succussione, si ottiene così la dinamizzazione.
I rimedi sono preparati in soluzioni idroalcoliche oppure si utilizza come sostanza veicolante una triturazione di lattosio. Anche nella medicina convenzionale si usano diluizioni di sostanze attive come la tubercolina, gli ormoni, ecc. ma la caratteristica che differenzia il farmaco omeopatico sta nel fatto che la tossina che ha provocato la malattia ha una somiglianza speculare con il rimedio somministrato per cui i sintomi provocati dai due fattori patogenetici (tossina e rimedio) non sono uguali, bensì simili. Quindi qualsiasi sostanza potrebbe teoricamente diventare un omeoterapico se utilizzata secondo le regole fondamentali dell’Omeopatia: similitudine, diluizione infinitesimale, dinamizzazione. Tale metodo e tutta la farmacologia omeopatica non sono cambiati dal 1796, anzi la vecchia letteratura lasciata da Hahnemann è di grande attualità ed è servita, soprattutto negli ultimi anni, a chiarire come agisce il farmaco omeopatico.
La ricerca omotossicologica, cioè dei fattori velenosi per l’uomo (omotossine), è partita dal presupposto che tutti i processi vitali avvengono attraverso trasformazioni chimiche ed ha identificato quei principi chimici che sono simili alle tossine che hanno indotto la malattia. Queste sostanze, dopo l’assunzione del farmaco omeopatico, si ritrovano nelle escrezioni e nei liquidi corporei della persona malata (sudore, espettorato, pus, ecc.). Si ha quindi una espulsione delle tossine indotta dal rimedio simile.